I tanti, per mesi, ci hanno raccontato che se la Consulta avesse sbarrato la strada a De Luca per il terzo mandato il suo sistema di potere sarebbe inevitabilmente imploso. I fatti, a distanza di due settimane dal verdetto dell’Alta Corte, ci dicono che quei tanti si sbagliavano. È vero semmai il contrario, per quanto paradossale possa apparire.
De Luca oggi è molto più forte di prima sul piano politico, perché libero dall’ossessione di riconquistare la presidenza della Regione può coltivare nuove prospettive, proprio facendo valere il suo peso sui territori, dettando le condizioni della mediazione al suo partito e agli alleati in vista delle regionali. Il governatore, d’altro canto, non avrebbe nulla da guadagnare da una ipotetica sconfitta del Pd e del centrosinistra, ha sempre saputo che andando da solo con una sua coalizione, con qualsiasi candidato al posto suo, molto difficilmente riuscirebbe a spuntarla. E seppure ci riuscisse il destino politico di suo figlio sarebbe segnato. Molto più logico cercare la mediazione con il Nazareno, mettere due liste a servizio del campo progressista, condividere il profilo del candidato apicale, contribuire in maniera determinante alla vittoria per poi rivendicare caselle cruciali in giunta, imporre il prossimo segretario regionale del partito, blindare il futuro di Piero, recuperare una prospettiva in chiave nazionale. Alzerà l’asticella e con l’asticella i toni, perché è così che si media, ma alla fine imporrà la sua sintesi perché questo è l’interesse del Nazareno e del Movimento Cinque Stelle.
In tale prospettiva, e in assenza di un’alternativa percorribile, non si comprende quali interessi potrebbero avere i suoi colonnelli a tradire. Lo sceriffo è nelle condizioni di garantire tutti.
È dunque del tutto evidente che se il centrodestra vuole provare a vincere in Campania, quantomeno a rendere contendibile la contesa per Palazzo Santa Lucia, deve necessariamente allargare i propri perimetri. E lo deve fare al centro, puntando a scardinare il sistema di potere deluchiano muovendo dal presupposto che la grammatica politica dei territori sfugge a qualsiasi schema.
Poche settimane fa Carlo Calenda, nel discorso di chiusura del congresso nazionale di Azione, sotto gli occhi di Giorgia Meloni, ha detto che Azione non farà mai parte del campo largo perché l’unica maniera per avere a che fare con il Movimento Cinque Stelle è cancellarlo. Se tanto ci dà tanto, dunque, in Campania Azione non dovrebbe avere nulla a che fare con il centrosinistra, il cui candidato alla presidenza della Regione sarà proprio espressione del partito di Conte e soci. Non è così, come ha ben spiegato il segretario regionale di Azione, Luigi Bosco, che ha rinviato al mittente l’apertura della Lega per una convergenza programmatica in Campania sul presupposto che da queste parti il rapporto con i Cinque Stelle è ottimo e l’unico obiettivo di Azione è quello di concorrere ad un centrosinistra largo e forte, partendo dal lavoro fatto in questi anni con De Luca.
Secondo grammatica politica Calenda dovrebbe commissariare il partito in Campania ma non lo farà, perché se lo facesse i riferimenti del partito sui territori, a partire dai consiglieri regionali uscenti, troverebbero un’altra collocazione.
Il punto non è Azione ma è il centro. Che in Campania non è abitato da partiti ma da consorterie. Ogni cognome è un partito a sé. Vale per Azione, vale tanto più per Italia Viva, per le liste del Presidente.
Se quindi il centrodestra deve allargare l’unica via percorribile per raggiungere l’obiettivo è quella indicata da Forza Italia: una via stretta e faticosa, che passa inevitabilmente per l’individuazione di un candidato alla presidenza estraneo alle logiche di partito, autorevole e riconoscibile, sufficientemente forte da alimentare la suggestione della vittoria possibile, di concedere certezze sui territori, di mettere in crisi gli equilibri acquisiti. Per dirla con Tajani, per vincere in Campania è necessario aprire porte e finestre a tutti coloro che fino ad oggi sono stati con De Luca, e che oggi non vogliono sostenere un candidato del Movimento Cinque Stelle.
Una via, quella tracciata da Forza Italia, sulla quale la coalizione dovrebbe incamminarsi prima possibile. Facile a dirsi, quasi impossibile a farsi. Perché se è vero che si voterà a fine novembre, dunque sulla carta il tempo ci sarebbe, la decisione verrà dettata dal tavolo nazionale, in ossequio ad un accordo che dovrà contemplare tutte le regioni chiamate al voto in autunno. E tutto dipenderà dal Veneto.
Se De Luca non potrà correre per il terzo mandato, Zaia non potrà correre per il quarto. E se è nota l’ambizione di Fratelli d’Italia, che alla luce delle percentuali raccolte alle europee ha rivendicato il diritto di esprimere il prossimo candidato alla presidenza del Veneto, la Lega non può rinunciare alla sua storica roccaforte, perché rischierebbe l’implosione.
Fortunatamente per Giorgia Meloni la stabilità del governo viene prima di tutto e a quanto pare, proprio all’indomani della sentenza della Consulta sul terzo mandato, la premier avrebbe fatto un passo indietro cedendo ad una sintesi che salverebbe capre e cavoli: il Veneto può restare al Carroccio, sul presupposto che il prossimo anno Fratelli d’Italia esprimerà il candidato per la Presidenza della Lombardia, e Zaia potrà andare ad occupare la poltrona di Ministro del Turismo nel momento in cui Daniela Santanché si vedrà costretta alle dimissioni per le note vicende giudiziarie che la riguardano.
Facile considerare che se il Veneto verrà riconosciuto alla Lega in Campania le quotazioni di Giampiero Zinzi, deputato e coordinatore regionale del partito, inevitabilmente precipiteranno. A quel punto, visto che l’ipotesi Piantedosi appare ormai tramontato, la partita si giocherebbe tra Edmondo Cirielli, vice ministro degli Esteri e uomo di punta di Fratelli d’Italia, e l’eventuale candidato civico individuato da Forza Italia. Ad oggi sono due i nomi su cui si ragiona, quello di Antonio D’Amato, che tuttavia si è detto più volte indisponibile, e quello di Costanzo Jannotti Pecci, numero degli industriali partenopei, che a quanto pare potrebbe accettare.
La logica dei numeri direbbe Cirielli, perché i rapporti di forza premierebbero Fratelli d’Italia e perché Forza Italia governa già cinque regioni. La logica politica dice tutt’altro.