Francesco è stato tante cose. Per dirla con il Cardinale Battaglia, Arcivescovo di Napoli, è stato innanzitutto un profeta e ai profeti capita spesso di vivere la dinamica messa in pratica da Erode con il Battista. Tra i grandi della Terra accorsi in Piazza San Pietro per rendergli omaggio, tanti, nel corso di questi anni, hanno preso platealmente le distanze dai suoi appelli in favore dei migranti o della pace, per una nuova coscienza ambientalista a difesa del Creato e contro la logica del profitto, i suoi richiami ai pericoli che si celano dietro l’emergere delle nuove tecnocrazie.
Costoro sono venuti a beatificarlo con le parole – ha detto Battaglia – per dimenticarlo nei fatti proprio come Erode con il Battista: lo accoglieva, lo ascoltava per poi fare l’opposto di quanto Giovanni predicava.
Ecco, le parole di Battaglia ci vengono in soccorso e ci fanno comprendere perché Francesco è stato soprattutto il Papa del Sud Globale, delle periferie esistenziali e geografiche. E nel Sud Globale rientrano anche territori come i nostri, le aree interne di questo nostro Mezzogiorno, condannate ai margini del mondo ricco, stritolate dalle dinamiche di questa modernità distopica, costrette in un’agonia a cui non pare esserci rimedio.
Se Papa Francesco è stato il Papa dei migranti è stato anche il Papa di chi emigra, anche il Papa dei nostri figli e dei nostri nipoti, che nascono all’ombra dei nostri pizzi e crescono nella certezza di dover partire per non tornare più. Non partono sfidando la morte ma salendo su un treno dell’alta velocità o su un aereo, non attraversano deserti, non scavalcano muri, non rischiano la vita. Partono perché non vogliono rinunciare al diritto di sognare, partono per cercare il proprio posto nel mondo, un posto che qui non possono trovare.
E non crediamo sia casuale se in questi anni solo la Chiesa, solo i nostri Vescovi hanno provato ad imporre in cima all’agenda politica ed istituzionale il grande tema del futuro delle aree interne, la necessità di operare concretamente per provare a sottrarre questi territori all’agonia dello spopolamento. Fare la rivoluzione vuol dire capovolgere l’esistente, vuol dire percorrere la via dell’eresia per riportare alla luce la verità, per sfidare l’assunto dettato dalla logica apparente.
La logica che spinge i nostri potenti ad assumere il medesimo comportamento di Erode con il Battista, ad assecondare la logica della convenienza, la logica del consenso che premia i numeri perché in democrazia i voti si contano e non si pesano. Ragione per la quale se tutti convengono sulla necessità di scongiurare la desertificazione di questi territori, attraverso investimenti adeguati volti a ridefinire la vocazione di questo pezzo di Mezzogiorno, la coperta, alla resa dei conti, risulta essere sempre troppo corta, perché un milione di euro investito nel Fortore o in Alta Irpinia muove poche migliaia di voti mentre quello stesso milione, investito a Napoli o a Salerno ne muove molti di più.
E allora, per tornare alle potenti parole pronunciate dal Cardinale Battaglia, la profezia di Francesco ci riguarda da vicino ed è una profezia che i nostri potenti ascoltano e condividono, salvo poi rinnegare quando sono chiamati ad esercitare la propria funzione, a farsi carico della propria responsabilità.
Tanti Erode che non temono il monito del Battista, perché non coltivano altra ambizione se non quella della propria sopravvivenza politica, sopravvivenza che passa per il ricatto, per i diritti che diventano favori, per il mercato della speranza. A tutto questo la Chiesa si oppone con coraggio ma è ormai una Chiesa senza popolo, una Chiesa che, appunto, semina nel deserto. Una Chiesa a cui è facile dare ragione, perché incapace ormai di farsi blocco sociale, dunque di orientare la politica e i decisori pubblici, di orientare le dinamiche del consenso. Una Chiesa che parla di futuro non fa paura laddove il futuro non è un’opzione.