“Come nel rugby, per affrontare la malattia bisogna guardare alla cura come alla meta, imparando a resistere al placcaggio più duro ed andare avanti senza arrendersi mai”. È forse questo l’insegnamento più bello che mi arriva dalla lunga chiacchierata con il dott. Guido Giordano, ricercatore beneventano classe ’81, tra i migliori oncologi e studiosi nazionali del tumore al pancreas. Allo straordinario medico mi legano anni di rugby e di battaglie in mischia, vissuti a combattere fianco a fianco. Dai tornei dei bambini in giro per l’Italia con la storica Imeva Benevento fino alle gioie e alle delusioni nei campionati giovanili nazionali con il Rugby Sannio, Guido è stato un esempio dentro e fuori dal rettangolo di gioco, sempre pronto a sostenere i compagni in difficoltà, sempre rispettoso dell’arbitro e dell’avversario. Oggi quei valori trasmessi dalla palla ovale se li è portati dietro nella vita di tutti i giorni, una vita piena zeppa di responsabilità, dove il gioco di squadra fa ancora la differenza. La sua ‘meta’ più bella è coordinare un team di professionisti altamente qualificati che provano quotidianamente a salvare pazienti con pochissime possibilità di vita. In missione dalla primavera del 2019 nel reparto di Oncologia Medica e Terapia Biomolecolare universitaria del Policlinico Riuniti di Foggia, l’oncologo ‘rugbista’ – tra l’altro in attesa per l’abilitazione scientifica nazionale come Prof. Associato – è un baluardo prezioso per quanti malati non possono permettersi ‘viaggi della speranza’ verso Milano e Verona, centri di riferimento per uno dei tumori più letali in assoluto. Guido è una vera eccellenza radicata al Sud (e con nessuna intenzione di andare via), che porta in alto il nome del Sannio in tutto il mondo, grazie anche a progetti importantissimi a favore dei Paesi sottosviluppati.
Come inizia questo percorso formativo e professionale? Quando nasce la vocazione per la medicina?
Fondamentalmente credo nasca con me, perché da bambino ho sempre avuto il sogno di diventare un medico. Una vocazione che da piccolo non era ancora strutturata, ma sono cresciuto al Rione Ferrovia, dove il Fatebenefratelli è un punto di riferimento e quindi avevo una visione dell’ospedale come un posto in cui sarei voluto arrivare. Sebbene non abbia un background familiare dove è presente la figura del medico e sebbene non mi sia mai stato suggerito di seguire questa strada, è una cosa che ho sempre sentito mia. L’idea si è strutturata durante le scuole superiori. Ad un certo punto, nel periodo adolescenziale, leggendo varie riviste scientifiche sul cancro, ho iniziato a condividere questo sogno con i miei genitori. “Oggi si muore di tumore, ma se qualcuno inizia a studiare come debellare la malattia, con molta probabilità in futuro non sarà più così”, ripetevo a mia mamma. Come in tutte le famiglie del mondo, poi, ci sono stati casi anche tra i miei parenti e la cosa ha iniziato a toccarmi più da vicino: volevo fare qualcosa di importante per aiutare i malati oncologici e i miei genitori mi hanno sempre supportato. Così sono entrato alla facoltà di Medicina presso la Seconda Università di Napoli, dove poi mi sono laureato, frequentando la sede di Caserta. Dal primo istante universitario, mi sono iscritto con l’idea di diventare oncologo: era talmente tanta la passione che chiesi la tesi già al terzo anno e il prof. Ferdinando De Vita, un po’ per diffidenza un po’ per attitudine, me la affidò soltanto dopo avermi fatto sostenere l’esame in Oncologia, per il quale presi il massimo dei voti.
Ad un certo punto nel tuo percorso professionale arriva il ‘Fatebenefratelli’, struttura che sognavi da bambino…
Da studente e neo laureato avevo vissuto molto l’ambiente accademico del Policlinico, ma mi mancava il contatto con la realtà e con il paziente. Mi mancava il lavoro sul campo: al di là della conoscenza, dello studio e dell’impegno totale, la differenza la fa sempre il contatto con l’ammalato, il seguirlo di persona costantemente. E così, al mio secondo anno di specializzazione, decisi di lasciare Napoli e di approdare al Fatebenefratelli di Benevento. Sono stato il primo in assoluto, nel settembre del 2011, grazie ad una convenzione tra l’ateneo partenopeo e il nosocomio sannita. Dovevo rimanerci solo 6 mesi, ma sono state settimane talmente proficue sia sul piano dell’attività clinica (ho raggiunto la piena autonomia in pochi giorni in Day Hospital) che della ricerca, tanto da invogliare il direttore della mia Scuola di Specializzazione, il prof. Fortunato Ciardiello, a farmi restare di sei mesi in sei mesi, fino al conseguimento della specializzazione in Oncologia Medica. A Benevento sono nate le prime attività di ricerca individuali: mi piaceva seguire gli ammalati utilizzando i protocolli degli altri, ma ad un certo punto ho iniziato a ragionare con la mia testa e ad approfondire determinati aspetti. Devo ringraziare anche l’ex primario Antonio Febbraro che mi ha dato ampio spazio. Nel contempo ho avuto rapporti diretti, poi diventati amicizia decennale, con il ricercatore dell’Unisannio, il prof. di Biologia Molecolare, Massimo Pancione, con il quale abbiamo iniziato a lavorare sulla resistenza immunitaria nei tumori del colon retto e, nell’ultimo anno, con la mia testardaggine, sono riuscito a ‘trascinarlo’ anche nel mondo della pancreatologia.
C’è una storia speciale nata al Fatebenefratelli che ti ha avvicinato allo studio del tumore al pancreas…
Nel 2011 conosco una signora affetta da tumore al pancreas, che era stata operata dal prof. Massimo Falconi, lo stesso luminare che ha salvato Fedez. La signora arriva da me per una recidiva dopo poco tempo dall’intervento: era il mio primo caso di tumore al pancreas. Mi trovavo a seguire una cosa nuova e avevo la necessità di studiarla. Mi trovavo di fronte una donna piena di vita, che voleva diventare nonna e che aveva massima fiducia in un giovane medico come me. Questa cosa mi ha spinto ad andare oltre: per l’utilizzo del nab-paclitaxel in una malattia dove in Italia non si poteva ancora usare in regime di rimborsabilità per il tumore del pancreas, devo dare merito all’ospedale FBF per averci permesso di usarlo ed al mio allora primario Antonio Febbraro per averci insieme a me creduto. La risposta è stata clamorosa: siamo riusciti a curarla per oltre un anno e mezzo, poi la malattia è progredita, ma la signora è riuscita a vivere 5/6 anni godendosi il nipotino. In quella circostanza ho iniziato ad appassionarmi a quel tipo di tumore, per il quale al Sud non c’erano specialisti dedicati. Durante la specializzazione iniziai a raccogliere dati sui pazienti curati in tutta Italia con quel farmaco specifico. Da specializzando, in un ospedale periferico, ho iniziato a inviare mail a raffica a tutti i centri del nostro Paese. Con l’aiuto del mio mentore, il prof. Michele Milella -un big dell’Oncologia a livello internazionale, che oggi posso definire con orgoglio un fratello maggiore al quale ‘rompo le scatole’ quasi quotidianamente -, sono riuscito a raccogliere queste informazioni in una ricerca con dati ‘real life’ sul nab-paclitaxel – la prima in assoluto -, costruendo il database più esteso al mondo con una casistica di circa mille pazienti trattati, tutti in centri italiani. Questi risultati sono stati poi presentati in vari congressi in giro per l’Europa e anche oltre Oceano.
Non hai mai pensato di andare via dall’Italia?
Ho avuto tante occasioni per andare all’estero, ma ho sempre rifiutato. Uno dei centri di ricerca più grandi al mondo, il Mayo Clinic di Scottsdale in Arizona, nella figura del prof. Ramesh Ramanathan, mi aveva proposto un contratto di ricerca. Mi trovavo a San Franscisco dove, con estremo imbarazzo, presentavo i miei dati sul pancreas ad un board internazionale dove intorno a me c’erano i grandi dell’oncologia Gastrointestinale mondiale. Un po’ come quando si chiedono gli autografi alle star del cinema o dello sport: loro, in quel momento, discenti ad una mia presentazione. Così come il San Raffaele di Milano, che insieme con Verona, sono le strutture di riferimento in Italia e in Europa per quanto concerne il cancro al pancreas. Da Milano tre chiamate e tre rifiuti. Il motivo? Mi sono sempre sentito un ‘terrone’: non volevo abbandonare i malati del Mezzogiorno, costretti a fare veri e propri ‘viaggi della speranza’ per curarsi al Nord.
Il tumore al pancreas resta tra i più letali in assoluto?
Il cancro al pancreas, il più aggressivo tra tutti, è considerato un vero e proprio “big killer”, quarta causa di morte per tumore al mondo e si stima possa diventare la seconda entro il 2030. Una malattia per la quale incidenza e mortalità stanno quasi sullo stesso livello. Perché? Perché è difficile fare prevenzione, in quanto bisognerebbe agire sullo stile di vita. Resta un tumore che quando arriva si fa sentire tardi e quindi la diagnosi è tardiva. La maggioranza dei pazienti fa diagnosi o quando la malattia è metastatica (e quindi non più suscettibile di un trattamento a scopo guarigione) o quando la malattia è localmente avanzata (e non più suscettibile di intervento chirurgico). Questi i casi più frequenti. Le diagnosi precoci sono occasionali (si fanno controlli per altro motivo e ce se ne accorge) o perché si avverte un sintomo e ci si rivolge subito al medico che fa partire i controlli. I sintomi sono: perdita di peso costante, ittero inteso come colorito giallastro della cute e delle sclere, dolore addominale o irradiato alla schiena, comparsa improvvisa di diabete in chi non ne era mai stato affetto.
Che progressi ha fatto la scienza in tal senso?
Oggi non esiste una cura assoluta e solo una piccola parte dei pazienti è operabile. Il segreto è migliorare il percorso diagnostico attraverso un grande gioco di squadra. Per quanto la diagnosi sia di natura oncologica, il tumore al pancreas è una malattia multidisciplinare: non esiste un solo attore, ma un gruppo di lavoro che a breve potrebbe diventare Pancreas Unit, strutture già deliberate in Regione Lombardia. Attualmente il tavolo di lavoro ministeriale sta vagliando i criteri minimi che i vari centri debbano possedere per essere accreditati come Pancreas Unit, con l’obiettivo di averne almeno una per regione. In queste strutture opereranno tutte figure professionali super qualificate e formate, preposte alla cura del paziente. Il cancro si combatte di squadra: c’è bisogno del chirurgo, dell’oncologo, del radioterapista, del patologo, del medico nucleare, del palliativista, del nutrizionista/dietista, del gastroenterologo, del radiologo, dello psicologo, del team infermieristico. Fondamentale nel team è anche l’associazione dei pazienti, che deve far sentire la propria voce e i propri bisogni. Quella che è migliorata oggi non è la cura in sé, quanto la consapevolezza che per curare una malattia del genere, sia in modo radicale sia in maniera palliativa, servono figure altamente qualificate e un team che dialoga e collabora, prendendo decisioni condivise. Negli anni abbiamo inoltre imparato che nella malattia potenzialmente operabile, i pazienti vanno trattati prima con un percorso di chemioterapia da sola o in associazione o in sequenza a radioterapia e poi, se la malattia non progredisce, possono eventualmente essere operati, con maggiori chance di vita. Nella malattia non operabile, localmente avanzata o metastatica, invece abbiamo imparato ad usare schemi con più farmaci, 2-3 o 4 che rispetto ai vecchi standard hanno maggiore efficacia ed inducono maggiori risposte sul tumore o sulle metastasi. Abbiamo anche imparato, più recentemente, che una quota (in Italia compresa tra il 7/10%) di pazienti, ha una malattia caratterizzata da un substrato ereditario, dovuto ad alterazioni nella linea germinale di geni deputati ai meccanismi di riparazione del DNA (i cosiddetti geni di Angelina Jolie). Questo oggi risulta fondamentale sia per un discorso di screening eredo-familiare, sia per la personalizzazione delle cure, infatti questi pazienti si giovano particolarmente di schemi di chemioterapia contenenti farmaci derivati del platino. Il test genetico è molto semplice, rimborsato dal SSN, basta un prelievo di sangue ed è indicato a tutti i pazienti con una nuova diagnosi di adenocarcinoma del pancreas.
Hai un rapporto speciale con i pazienti. Quanto sono importanti la fiducia completa, l’empatia, ma soprattutto la comunicazione?
Il rapporto deve essere biunivoco e sincero. Sin dal primo istante dico tutto ai miei pazienti. Cose belle e cose brutte. Ma voglio anche sapere tutto, proprio come un sacerdote nel confessionale. I miei pazienti sono resi partecipi di tutti gli step e anche delle notizie più dolorose. E’ un rapporto di massima fiducia reciproca. Quando la malattia progredisce, sulle mie spalle porto il fardello di accompagnare il paziente nell’ultima fase della vita: è fondamentale essere sincero, empatico e leale. Così come è giusto, nel mio ambulatorio, accogliere tutti con il sorriso e con l’allegria.
Si parla tanto di aree interne, fuga di cervelli e difficoltà della sanità, anche nel nostro Sannio. Come si riporta la sanità a determinati livelli?
Ci vogliono volontà, risorse, programmazione e una squadra di lavoro. La volontà credo ci sia, spesso mancano le risorse. Un esempio che faccio spesso: siamo tutti bravi piloti, la patente l’abbiamo tutti (siamo laureati e specializzati) e tutti vorremmo guidare una Ferrari per vincere il Mondiale di Formula1, ma se il Mondiale lo vinci su una Fiat500 la soddisfazione è doppia. L’idea di andare fuori perché non ci si sente gratificati al Sud secondo me non è sbagliata, ma se la macchina migliore riusciamo a costruirla tra la nostra gente, partendo dal presupposto che i pazienti sono uguali in tutto il mondo, credo sia un orgoglio ancora più grande. Al Sud non manca la qualità, mancano una programmazione dedicata alla patologia pancreatica e una costruzione di realtà che faccia sentire il medico ‘coccolato’, che lo metta nelle condizioni migliori di esprimere il proprio talento. L’impegno quotidiano, l’abnegazione, il sacrificio, il puntare dritto alla meta, avere un obiettivo che sia a lungo termine sono poi ulteriori caratteristiche importantissime per fare questo mestiere. Per far crescere la qualità della sanità al Sud, secondo me, bisogna far sentire il medico parte integrante di un progetto concreto e reale. Questo trattiene le eccellenze sul territorio.
Quanto i valori trasmessi dal rugby hanno inciso nel tuo percorso formativo?
Quando sono stato chiamato a fare relazioni di team building ho sempre utilizzato la foto di quando giocavo a rugby. La palla ovale mi ha insegnato tante cose: in primis, da solo non si va da nessuna parte, ma è fondamentale la squadra; se vuoi andare avanti, devi essere altruista, devi affidarti e fidarti del compagno accanto. E ancora: la palla si passa all’indietro per poi lasciare che il compagno porti la palla in avanti mentre gli si resta accanto e lo si sostiene…questo vale sia nel Team Multidisciplinare che soprattutto con il paziente. E, soprattutto, se ti placcano e ti buttano giù, ti devi alzare più forte di prima. Il rugby mi ha dato anche la possibilità di aprirmi al mondo, di non avere la timidezza di interfacciarmi con gli altri e questo mi ha aiutato nel rapporto con i pazienti. Nel mio ambulatorio si ride e si scherza, si prova ad esorcizzare la morte con battute e allegria. Ai miei pazienti ripeto che è solo un caso che ci sia una scrivania a separarci. E soprattutto cerco di trattarli come vorrei che fossi trattato io o le persone che amo.
Il presente oggi è Foggia.
A Foggia, quando sono arrivato nel 2019 come Dirigente Medico Ospedaliero, non c’era un gruppo dedicato al pancreas. Nel dicembre del 2020, a quasi 40 anni, sotto lo stimolo del mio Direttore Prof Matteo Landriscina, ho intrapreso il percorso Universitario come ricercatore con la mission di lavorare in modo sistematico sui tumori pancreatici. Oggi, curiamo pazienti da tutta la Puglia, dalla Basilicata, dal Molise, dalla Calabria, da parte della Campania e qualche paziente anche dall’Umbria. Testimonianza del fatto che l’impegno e la dedizione sulla patologia pancreas hanno fatto crescere molto la nostra realtà. Infatti dal 6/11 la Direzione Generale ha deliberato l’istituzione nel nostro policlinico di un Gruppo Oncologico Multidisciplinare per i Tumori del Pancreas, affidandomene il coordinamento.
Tante anche le iniziative in campo con l’AISP…
Sono nell’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas dal 2021. Sono entrato per merito scientifico e alta professionalità sulla patologia. Dal 2024 sono diventato il team leader della task force di Oncologia dove ho l’onore di guidare i big italiani, di gran lunga i migliori e più conosciuti nel mondo: penso al prof. Milella ed al prof. Michele Reni del San Raffaele di Milano, forse l’unico oncologo al mondo ad occuparsi esclusivamente di tumori pancreatici, anche lui altro mio mentore ed amico da un decennio. Facciamo tanta attività formativa. Il mio obiettivo è far crescere il Sud con attività autofinanziata grazie a fondi derivanti da iniziative di raccolta e da donazioni da parte delle Associazioni Pazienti la cui richiesta dí migliorare le cure ed i percorsi è sempre maggiore. Coordino inoltre il gruppo giovani under 45 nel GOIM (Gruppo Oncologico dell’Italia Meridionale) per le malattie del pancreas e del fegato e sono nel gruppo scientifico per scrivere le linee guida AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) per i tumori del pancreas esocrino. Tali linee guida sono recepite e pubblicate dall’Istituto Superiore di Sanità.
Tanti infine i progetti in cantiere per il futuro…
Con l’Inner Wheel organizziamo raccolte fondi per sostenere la causa. Stiamo lavorando ad un grande evento – ancora non so se in Campania o in Puglia – con un attore comico nazionale per una nuova importante campagna di sostegno. Con l’associazione sto lavorando anche sul piano internazionale: nel 2023 ho lanciato un progetto dal titolo World Pancreatic Cancer Report rivolto ai Paesi del Nordafrica: a fine febbraio tornerò ad Hammamet per parlare di immuno-oncologia nei tumori del pancreas ad un congresso nazionale e per proseguire nella raccolta di dati. Nel contempo ho avviato anche un discorso per avvicinare queste nazioni meno sviluppate ai nostri standard di riferimento, introducendo nuovi farmaci. Questa un’altra battaglia con la quale proverò ad ‘andare in meta’.