I grandi Paesi membri dell’Ue mettono nel mirino e affondano il piano dell’Alta Rappresentante Kaja Kallas da 40 miliardi di euro per armare l’Ucraina. Il piano di riarmo dell’Ue concepito dalla Commissione Europea viene ribattezzato “Readiness 2030”, ma la sua reale portata finanziaria resta incerta, perché, a parte la Germania, diverse capitali tengono le carte coperte sull’eventuale utilizzo della clausola nazionale di salvaguardia. E, soprattutto, la costante fronda dell’Ungheria di Viktor Orban viene neutralizzata, approvando conclusioni separate sull’Ucraina a 26, dando per scontato il no di Budapest. Sono questi i principali risultati del Consiglio Europeo di marzo, esaurito a Bruxelles in una sola giornata malgrado l’agenda piuttosto densa.
Il metodo Costa
Tutto grazie al presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa, che ha impostato un metodo di lavoro molto diverso da quello del suo predecessore, il belga Charles Michel, che aveva abituato la ‘Bolla’ bruxellese a trattative interminabili e notti insonni alla costante ricerca del consenso a 27, a volte ottenuto mediante trovate curiose, come l’uscita di Viktor Orban dalla sala per un caffè. Il socialista portoghese, un politico pragmatico, preferisce lasciare il lavoro di ‘drafting’, la redazione delle conclusioni, agli ambasciatori, dedicando le ore dei Consigli Europei alla discussione tra i leader sulla sostanza dei problemi.
Il cancelliere tedesco uscente, Olaf Scholz, arrivato probabilmente al suo ultimo Consiglio Europeo, ha avuto esplicite parole di apprezzamento per questo metodo di lavoro, che permette ai leader di “focalizzarsi” sulla sostanza dei problemi. Così, invece di infilarsi in una trattativa infinita con gli ungheresi per moderare il testo delle conclusioni sull’Ucraina, Costa ha deciso di separarle, in un allegato che gode del “deciso sostegno” di 26 Paesi su 27. Gli ungheresi hanno una prospettiva sulla guerra scatenata dai russi molto diversa da quella del resto d’Europa, anche perché confinano direttamente con l’Ucraina, si preoccupano per la consistente minoranza magiara della Transcarpazia e hanno diversi motivi di contrasto con Kiev, non ultimi i diritti linguistici degli ungheresi d’Ucraina.
Ungheria isolata
In ogni caso la nuova linea di Costa, che dà per scontato il dissidio di Budapest dagli altri 26 sull’Ucraina, depotenzia, anche mediaticamente, il potere negoziale dell’Ungheria: approvare conclusioni a 26 su Kiev sta rapidamente diventando il ‘new normal’ a Bruxelles, anche nei titoli dei giornali. Una prospettiva che non può non preoccupare Budapest, abituata da anni a sfruttare abilmente il potere di veto a Bruxelles per strappare concessioni. Viktor Orban ha rivendicato che l’Ungheria “non ha mai avuto paura di nuotare controcorrente”. Ma la conferma dell’inquietudine magiara è arrivata, indirettamente, dalla discesa in sala stampa, a Consiglio Europeo in corso, del consigliere politico del primo ministro, Balazs Orban.
Per l’alto funzionario, non è l’Ungheria ad essere isolata, ma è l’Ue ad essere “il posto più isolato del mondo”, visto che ha rapporti complicati con “Usa, Russia e Cina”, al contrario di Budapest, che ha ottimi rapporti con tutti e tre. Costa gli ha risposto, indirettamente, in conferenza stampa, facendo notare che un conto è avere “13-14 Paesi” contrari su 27, un altro è averne, come in questo caso, “ventisei” d’accordo e uno solo contrario. “Dobbiamo rispettarla – ha detto Costa – ma non possiamo rimanere bloccati perchè l’Ungheria ha un’idea diversa dagli altri”. Bisogna “rispettare” Budapest “nel suo isolamento, ma rimane isolata”, ha aggiunto.
La ‘pre-trattativa’ Putin-Trump e i timori Ue
Sull’Ucraina la discussione tra i leader è stata piuttosto approfondita. Fonti Ue hanno riferito che al tavolo c’era un generale consenso sul fatto che i colloqui tra Donald Trump e Vladimir Putin non costituiscono una vera “trattativa” e lo stesso ministro degli Esteri, Antonio Tajani, l’ha definita una “pre-trattativa”. Per il premier spagnolo Pedro Sanchez, Putin sta usando “tattiche dilatorie” per perseguire le proprie ambizioni “imperialiste”. Il primo ministro belga Bart De Wever, dell’N-Va fiammingo (gruppo Ecr), ha fornito una descrizione piuttosto precisa: “Non vi nascondo – ha spiegato ai cronisti – che attorno al tavolo ci sono opinioni diverse”.
Per De Wever, “alcuni sperano che Trump, alla fine, si accorga che Putin non è affidabile” e che “ritorni” con gli europei. “Altri, che spesso sono molto vicini alla situazione e che conoscono molto bene il presidente russo, credono che Trump accetterà molte delle condizioni che Putin pone” per mettere fine alla guerra in Ucraina. “Alcuni, una ventina di Stati membri, le considerano una vera e propria capitolazione per Kiev. Sarebbe l’esito peggiore per l’Europa, perché la migliore garanzia per l’Europa è l’esercito ucraino”. Come ha detto il premier polacco Donald Tusk, “la Russia è attualmente impotente nei suoi piani aggressivi contro il resto dell’Europa, perché l’Ucraina si è assunta l’onere del confronto diretto con l’aggressore”. Quindi, per dirla con Wever, “l’euro meglio investito per la difesa europea è quello investito per aiutare l’Ucraina”.
Nel caso in cui Trump accettasse le condizioni poste da Putin, allora l’Europa potrebbe ritrovarsi in una situazione per cui l’Ucraina “si arrende” ai russi, viene “demilitarizzata” e si procede ad un cambio di governo, con l’insediamento al potere a Kiev di un “regime filorusso”, come quello di Aleksandr Lukashenko in Bielorussia. Pertanto, ha avvertito l’ex sindaco di Anversa, “andiamo verso un momento molto delicato” e “di qui all’estate sapremo” come andrà a finire. “Mi rallegro del fatto che tutti i Paesi sono molto consapevoli del problema” e della necessità di “aumentare le spese per la difesa”, insieme agli “aiuti bilaterali all’Ucraina”. Per questo, “penso che ci ritroveremo prima di luglio (forse intendeva dire fine giugno, quando è in calendario il Consiglio Europeo regolare, ndr). Mi stupirei del contrario”.
Il no al piano Kallas
Fonti Ue danno pressoché per scontato che prima del Consiglio Europeo di fine giugno si riunirà un altro summit straordinario: da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca i leader europei si sono riuniti già tre volte a 27, nel giro di poco più di due mesi, senza contare i vertici intergovernativi a Parigi e Londra. Sugli aiuti all’Ucraina, l’Alta Rappresentante Kaja Kallas ha visto il suo piano da 40 miliardi di euro per rendere strutturali i sussidi militari a Kiev impallinato dagli Stati membri, in particolare da quelli grandi, che non hanno gradito la prospettiva di dover contribuire prendendo ordini da Bruxelles, in base al rispettivo Reddito nazionale lordo. All’Italia sarebbe costato 5 mld l’anno, non esattamente spiccioli.
Pertanto, le conclusioni menzionano l’iniziativa di Kallas, ma specificano che l’adesione è su base “volontaria” e che “coordina” gli aiuti all’Ucraina, che restano su base bilaterale, cioè dai singoli Stati a Kiev. Inoltre, è sparita dal testo qualsiasi menzione della chiave di ripartizione in base all’Rnl. Resta in piedi la possibilità di un piano da 5 mld di euro per fornire munizioni all’Ucraina, la stessa cifra che il presidente Volodymyr Zelensky ha chiesto ieri, in videoconferenza dalla Norvegia. Un ottavo della somma ventilata inizialmente.
La posizione italiana e degli altri ‘grandi’
In più, fonti Ue hanno precisato che “non” si trattava di una “proposta della Commissione”, anche se le “intenzioni” erano “ottime”. Insomma, l’ex premier dell’Estonia ha toccato con mano cosa vuol dire mettere sul tavolo un piano senza consultarsi preventivamente con i grandi Stati membri. Se per il ministro degli Esteri Tajani l’iniziativa di Kallas era da “approfondire”, il collega spagnolo José Manuel Alvares Bueno era stato molto più diretto: la Spagna, ha sottolineato, ha già aiutato l’Ucraina copiosamente, “senza” che ci fosse il bisogno di indicazioni da parte dell’Alto Rappresentante. In ogni caso, come ha spiegato De Wever, “molti” Paesi prevedono un forte “aumento” degli aiuti bilaterali: facendo le somme degli impegni “arriviamo facilmente” alla cifra prevista da Kallas. C’è una “forte volontà” di aiutare Zelensky e “nessuno blocca”, neppure Orban, che non ha esercitato il veto, ma si è limitato a non sottoscrivere le conclusioni.
Le critiche bipartisan a Von der Leyen
Inoltre, il piano ReArmEu ha subito una mutazione semantica, dopo che Ursula von der Leyen ha incassato le critiche bipartisan di Giorgia Meloni (Ecr, destra) e Pedro Sanchez (Pse, sinistra). La premier italiana e il collega spagnolo hanno entrambi criticato la scelta di chiamare il piano per riarmare l’Europa in modo così schietto. Pertanto, von der Leyen, che già aveva ‘battezzato’ Safe il programma di prestiti da 150 mld di euro (nome che riecheggia il piano Sure a sostegno dell’occupazione), ha iniziato a parlare di “Readiness 2030”, prontezza al 2030. La portavoce capo Paula Pinho ha sostanzialmente confermato che il ‘rebranding’ è scattato per via delle perplessità di alcune capitali: “Siamo consapevoli – ha detto – del fatto che il nome ReArm in quanto tale può suscitare sensibilità in alcuni Stati membri. Naturalmente, ascoltiamo queste preoccupazioni. E se ciò rende più difficile trasmettere il messaggio a tutti i cittadini dell’Ue sulla necessità di adottare queste misure, allora siamo pronti non solo ad ascoltare, ma anche a rifletterlo nel modo in cui comunichiamo in merito”.
Le conclusioni approvate all’unanimità
Onomastica a parte, sul riarmo i 27 hanno approvato conclusioni all’unanimità, come pure sul tema della competitività, connesso al primo. Per De Wever, oggi “la spaccatura è tra chi si è già riarmato, come la Polonia che spende per la difesa il 4,8% del Pil”, e chi ancora non lo ha fatto. Anche il premier ungherese Orban, che sull’Ucraina si è messo di lato, “è tra i 27 sul riarmo”. Oltre a Safe, l’altro pilastro del piano ex ReArmEu è l’attivazione della clausola nazionale di salvaguardia del patto di stabilità, che secondo le stime della Commissione dovrebbero consentire spese aggiuntive per la difesa pari a 650 mld di euro nei prossimi quattro anni. Le cifre sono tutt’altro che certe: a differenza di Next Generation Eu, che erano 800 mld di euro di soldi veri, raccolti sui mercati emettendo obbligazioni, questi 650 mld sono una proiezione della possibile spesa nazionale dei singoli Stati membri.
La scelta se procedere ad attivare la clausola nazionale va fatta entro fine aprile, ma non mancano le perplessità. La clausola casca a fagiolo per la Germania, che ha appena riformato il freno al debito (con un voto di un Parlamento uscente, cosa impensabile in altri Paesi) e può così spendere copiosamente per riarmarsi, ma per altri Stati, con alti debiti pubblici, le cose stanno diversamente. A quanto viene fatto notare, diversi Paesi temerebbero l’effetto stigma davanti ai mercati dei capitali. Secondo questa lettura, chi chiede l’attivazione della clausola di salvaguardia denuncerebbe di avere un problema di bilancio. Inoltre, la clausola di salvaguardia evita al Paese che sfora di un 1,5% del Pil ogni anno per la difesa di finire in procedura per deficit eccessivo, ma non è affatto chiaro che cosa succederebbe ai Paesi che si trovano già sotto procedura, come Italia e Francia. In mancanza di dettagli, per ora le capitali stanno allineate e coperte. Tanto più che non si sa ancora quale livello di spesa militare in rapporto al Pil gli Stati membri della Nato dovranno raggiungere (si parla del 3,5%, ma la decisione è attesa a giugno, sempre che Trump non si faccia sentire prima).
Spese per la difesa fuori dal Patto di Stabilità
Quindi, per ora l’agognato scorporo delle spese per la difesa dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità, che pure l’Italia chiedeva da tempo, è finalmente arrivato, ma non sembra aver suscitato molto entusiasmo. Si vedrà quali scelte faranno le capitali alla fine del mese prossimo. Infine, malgrado le insistenze di alcuni Paesi del fianco est, l’ipotesi di confiscare i beni congelati alla Banca centrale russa, circa 200 mld di euro, per consegnarli all’Ucraina non sembra decollare. Anzi. De Wever, che è direttamente coinvolto (quei soldi sono per lo più nei conti di Euroclear, società di clearing con sede in Belgio) ha spiegato che “confiscare 200 miliardi di euro” ad un Paese “è un atto di guerra”. Non solo comporterebbe “conseguenze sistematiche” per “l’intero sistema finanziario mondiale”, ma “i russi si arrabbierebbero” e “hanno i mezzi per reagire, cosa che già stanno pensando di fare”. Pertanto, ha ammonito, “prima di fare dichiarazioni pubbliche su questo argomento, bisognerebbe valutare bene i pro e i contro di ciò di cui si sta parlando”.